LETTERATURA E ARANCE
Salvo Zarcone
Certo,
è vero: non tutte le arance sono uguali. C'è
arancia e arancia. Quelle letterarie attraversano gran parte
dell'immaginario intorno alla Sicilia, la rappresentano
per analogia, costituiscono una costante diacronica del
suo modo di essere dentro La letteratura. Ma, per non andare
troppo indietro nel tempo con il conseguente rischio di
trovarle tutte marce, basterà qui segnare come punto
di partenza la data del 1860 e indicare le linee essenziali
di un processo di forme, forse solo una tendenza, che legano
quel passato a questo presente.
Garibaldi
è la prima figura che emerge nitida da quell'epopea.
Ed è interessante notare come, oltre che gran bevitore
di caffè e ostinato fumatore di sigari, il generale
fosse in Sicilia un appassionato consumatore di arance.
Giuseppe Bandi lo rappresenta più volte nell'atto
di offrirne, in particolare ai soldati malati, ma anche
di consumarne egli stesso. Singolare è, però,
soprattutto il racconto dell'armistizio di Palermo che decide,
in definitiva, le sorti della città.
Sono
i primi di giugno del 1860; l'eroe dei due mondi ha fatto
del palazzo pretorio la sede del suo quartier generale da
dove dirige le operazioni delle barricate contro le truppe
borboniche asserragliate nel palazzo dei normanni e nel
castello a mare. Già si combatte con accanimento
da molti giorni. Il generale Letizia e il colonnello Buonopane,
capo dello stato maggiore, vengono fatti entrare nello studio
del Generale. "Trovarono Garibaldi seduto sopra una
poltroncina, ed aveva tra le gambe una sedia, sulla quale
erano diversi sigari, due o tre arance, un pugnaletto fuori
della guaina e diversi fogli". Il dialogo tra i due
schieramenti (l'eroe, perché tale sempre nella sua
unicità ma qui lasciato solo per una svista, e i
due militari borbonici, disposti gerarchicamente) assume
un significato singolare proprio attraverso il particolare
realistico: l'opposizione tra la semplicità dell'eroe
e 1'affettazione del soldato di carriera, in mezzo l'arancia.
La richiesta del generale Letizia è di prolungare
indefinitamente 1'armistizio: "Va bene" rispose
Garibaldi, e tolto in mano il pugnaletto si diè a
sbucciare un'arancia.". E già questo sarebbe
un ben singolare comportamento se il racconto non seguitasse
precisando: "Mentre il colonnello cosi parlava, Garibaldi
aveva mondata tutt'intera un'arancia e l'avea aperta; ora,
egli ne infilò uno spicchio colla punta del pugnaletto
e lo porse a Letizia, dicendo: "A voi, generale"
E poi ne infilò un altro e l'offri a Buonopane, dicendogli:
"A voi, colonnello". Cos'ì, tra uno spicchio
d'arancia e un altro, si mettono a leggere le condizioni
della tregua: "Leggerò io, signor generale"
ripigliò il colonnello, allungando la mano per pigliare
i fogli. E messo in bocca un altro spicchio d'arancia, che
Garibaldi gli porse, cominciò a leggere le condizioni
della tregua". Ma 1'arancia, è da sottolineare,
serve anche a mettere in evidenza un'altra dote dell'Eroe
e insieme un classico topos letterario: l'imperturbabilità
di fronte al pericolo. Così, nel mentre che si discute,
rimbomba a breve distanza una carica di moschetteria: "Il
Letizia e il Buonopane balzarono in piedi, pallidi come
due morti: [...]. "Fate che cessino" disse Garibaldi
senza scomporsi, e seguitò a sbucciare le sue arance".
Da quest'uso, che per brevità si potrebbe definire
realistico, anche se non è possibile tralasciarne
del tutto i significati altri e certamente mitici cui invia
la presenza e 1'uso dell' arancia nel testo, il passaggio
almeno al realismo verghiano appare quasi obbligato. E le
arance, anche se è da dire che più di frequente
sono sostituite dai fichi d'india, sono presenti fin dal
suo primo 'cartone', Fantasticheria (1878), in una dimensione
che partendo dall' osservazione del dato reale e dalla rappresentazione
del livello economico e sociale tende perè ancora
una volta ad elevarsi al significato tendenzialmente allegorico,
quale manifestazione di una miseria difficile anche a concepirsi
da parte di chi appartiene al livello alto della dama bianca
cui è destinato l'intero testo: "Ora - scrive
il narratore alla sua dama bianca - rimangono quei monellucci
che vi scortavano come sciacalli e assediavano le arancie,
rimangono a ronzare attorno alla mendica, a brancicarle
le sue vesti come se ci avesse sotto del pane, a raccattar
torsi di cavolo, buccie d'arancie e mozziconi di sigari,
tutte quelle cose che si lasciano cadere per via ma che
pure devono avere ancora qualche valore, poiché c'è
della povera gente che ci campa su". Rappresentazione
realistica e dimensione allegorica cominciano sempre più
a divergere man mano che ci si avvicina al novecento e,
passando attraverso le lumie pirandelliane, simbolo di una
dimensione naturale negata dall'artificio della vita metropolitana,
rimane impressa negli occhi l'immagine che della Sicilia
fornì un ammiratore e traduttore di Verga. David
Herbert Lawrence fu a Taormina all'inizio degli anni venti
(1920-22). Il suo rapporto con l'isola assume connotati
particolari in rapporto con la sua singolare visione del
mondo per l'opposizione in lui determinante, tra un nord
umbratile, dedito all'intimismo e sostanzialmente decaduto,
e un sud tutto solare al cui interno il rapporto con la
natura può e deve produrre una vera e propria rigenerazione.
Il racconto si ricostruisce, attraverso la storia di Juliet
e dei suoi amplessi con il sole, il suo punto di vista ma
insieme rappresenta, proprio attraverso un'arancia che rotola
sul pavimento rosso di un terrazzo inseguita dall'innocenza
del figlio, il singolare rapporto con la Sicilia e soprattutto
con il sole da cui è pervasa: "Corri!"
gli disse. "Corri lì, nel sole!". Lo spogliò
là stesso, e lo mise nudo sul terrazzo caldo. "Gioca
al sole!" gli disse. Spaventato, il bimbo stava per
piangere. Ma, calda dì tutta la indolenza del suo
corpo, e indifferente nel cuore, ella fece rotolare un'arancia
sui mattoni rossi e il piccino, col piccolo, morbido corpo
incompiuto, rincorse il frutto vacillando. E appena l'ebbe
preso lo lasciò cadere, per la strana sensazione
che gli diede alla carne col suo contatto. Alzò lamentosamente
il viso, prossimo al pianto, verso la madre, impaurito di
essere nudo. "Portami l'arancia" gli disse allora
lei, ed era stupita della propria profonda indifferenza
dinanzi a quel trepidare. "Porta 1'arancia alla mammina!".
In questa immagine solare si condensa e si compie anche
il passaggio da Verga a Lawrence, tra otto e novecento,
dal naturalismo alle moderne forme allegoriche novecentesche.
La rappresentazione dell'arancia ne costituisce la sintesi
evidente. Così che quando negli anni trenta Vittorini
rappresenta il suo celebre venditore d'arance, illustrato
da Guttuso, in Conversazione (1938) il passaggio è
ormai compiuto e il piccolo, tragico siciliano con la piccola
moglie, costretto a mangiare arance, solo arance che nessuno
vuole non tiene più in mano il frutto ma la propria
disperazione, il tratto distintivo della propria avvilita
miseria e della propria diversità: "io osservai
il piccolo siciliano dalla moglie bambina pelare disperatamente
l'arancia, e disperatamente mangiarla, con rabbia e frenesia,
senza affatto voglia, e senza masticare, ingoiando e come
maledicendo, le dita bagnate di sugo d'arancia nel freddo,
un po' curvo nel vento, la visiera del berretto molle contro
il naso". La ripetitività dei gesti fissa in
un'immagine indelebile il senso deformato di un'immagine
che già in Verga comprendeva almeno una dimensione
polisemica: "E lui, piccolo siciliano, restò
muto un pezzo nella speranza, poi guardò ai suoi
piedi la moglie bambina che sedeva immobile, scura, tutta
chiusa, sul sacco, e diventò disperato, e disperatamente,
come dianzi a bordo, si chinò e sfilò un po'
di spago dal paniere, tirò fuori un'arancia, e disperatamente
l'offri, ancora chino sulle gambe piegate, alla moglie e,
dopo il rifiuto senza parole di lei, disperatamente fu avvilito
con l'arancia in mano, e cominciò a pelarla per sé,
a mangiarla lui, ìngoiando come se ingoiasse maledizioni.".
Qualche
anno dopo 1'arancia, anzi il suo odore, è diventata
una metonimia. Accade sul treno che riporta in Sicilia il
don Giovanni Percolla di Brancati (1941), dopo il lungo
soggiorno milanese con la moglie Ninetta. I due entrano
nel vagone ed è una delle percezioni, sulle quali
si fonda la particolare forma di conoscenza del mondo del
protagonista (e del narratore), a svelargli la rea1tà:
"Un calore e odore di vita umana e d'affetti impregnavano
di sé perfino il foglio di giornale ch'era rimasto
accartocciato presso il finestrino: e intanto, snidato dal
piede di un ragazzo, la cui gamba era fasciata in due punti,
usciva di sotto il divano un involto, che, aprendosi lentamente,
mostrava le sue scorze d'arancia: subito la calcagnata di
un altro bambino faceva sprizzare da quelle bucce un profumo
acidulo nell'aria". Sul vagone milanese l'odore d'arancia
e di già Sicilia così che "colpito gradevolmente
alle narici, Giovanni diventò allegro e brioso".
La
rappresentazione allegorica comincia a stemperarsi, avvicinandosi
al postmoderno l'arancia si disfa sul piano del significato
per concentrare la sua azione formale principalmente sul
piano del significante. In Retablo (1987) Vincenzo Consolo
costruisce, all'interno di un insieme di quadri diacronicamente
disposti, un dizionario botanico sulla Sicilia. In realtà,
ad essere investiti dalle attenzioni classificatorie dello
scrittore siciliano sono vari elementi del reale, dai cibi
alla fauna, in specie gli uccelli, e alla flora. Consolo
dispiega una ricca nomenclatura botanica che presuppone
certamente un'accurata documentazione che va dalla piante
a carattere esotico (palme, gelsomini, dature, campanule,
agavi, euforbie, olivi saraceni, pini d'Aleppo, opunzie,
sicomori) alle specie mediterranee (sommacco o scannabecco,
saggine, acanti, viti, capperi, rovi, pistacchi, mandorli,
cardi, melisse, mentastri, melograni, fichi, cipressi, spini,
terebinti, ampelodesmi, ferule, giunchiglie, fiori di cocuzza,
spighe, giummare). Il tutto disseminato sapientemente nel
testo come la frutta candita sulla cassata araba a evocare
una forma che dovrebbe venir fuori a conclusione della lettura
dal tessuto linguistico cosi strutturato.
E,
scrivendo della Sicilia, non poteva non venir fuori, anzi
occorre dire che è la prima citazione botanica del
racconto, 1'immagine dell'arancia, anzi, poiché di
piante soprattutto ci si serve, del1'arancio posto nel luogo
più ovvio della sua sistemazione geografica. Appena
usciti da Palermo, lungo la strada che porta a Monreale,
i due viaggiatori protagonisti, il nobile milanese Fabrizio
Clerici e il suo giovane compagno Isidoro, s'imbattono nei
"giardini folti d'aranci che smaltano di verde la ferace
terra". Ma non si tratta più di un'immagine
allegorica, né ci si riferisce a significati altri.
Si tratta semplicemente di una nomenclatura vegetale, di
un elemento linguistico che definisce un campo ad elevato
tasso di letterarietà: "quest'arbori che vengon
di lontano, dall'India o dal Catai, in questa terra e sotto
questo cielo sembran trovare la linfa più vitale,
sì forti sono, e splendidi e odorosi". Cosi
che, subito dopo, quando i due sono costretti a nascondersi
dietro un masso per dei colpi d'arma da fuoco provenienti
da "una siepe d'opunzie", questa che sembra appena
una citazione dotta per fichidindia scopre 1'avvio delle
lussureggianti pagine del testo che s'intreccia anche a
questo specifico campo semantico.
Dalle
mitiche arance di Garibaldi al realismo della 'tipica' miseria
verghiana, dall'allegorismo di Lawrence e di Vittorini alla
nomenclatura di Consolo il passo è quello di un processo
che porta dal realismo come predominio del significato alla
sua moderna trasposizione allegorica nelle forme primonovecentesche
alla citazione e all'espansione del significante. L' arancia
nella letteratura, si diceva all'inizio, non è mai
la stessa.
Salvo Zarcone
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